Franco Godina

Io e Franco

Con Franco ci siamo incontrati la prima volta nel 1968/69. Lui lavorava presso il laboratorio analisi dell’ospedale di Merate che io frequentavo da studente. Studiavo a Roma all’Università Cattolica – Policlinico Gemelli; ero al secondo anno di medicina e lavoravo per mantenermi agli studi presso un laboratorio di analisi. Franco mi insegnava i primi “trucchi del mestiere” e io gli parlavo della burocrazia di ciò che stavo realizzando a Roma: un nuovo laboratorio analisi in società con una dottoressa che già da anni ne aveva uno suo.

La sintonia tra noi si è andata sempre più raffinandosi piano piano che capivamo di avere entrambi gli stessi ideali di fondo con i quali gestivamo le nostre vite. L’Uomo (U maiuscola) sempre al centro, dando priorità agli ultimi tra gli ultimi. Amicizia di lavoro/studio che si è approfondita sempre più consolidandosi nel tempo fin quando da medico del lavoro usufruivo del suo laboratorio analisi per le ditte che seguivo professionalmente.

I tentativi di  coerenza ai valori nel nostro quotidiano che ci hanno portato necessariamente a prestare attenzione all’africa; vero serbatoio di ultimi tra gli ultimi; di quelli senza voce e quindi dimenticati.

Franco fu decisivo con il suo apporto, quando mi ritrovai ad aprire per conto della diocesi di Marsabit in Kenya un nuovo ospedale da 50 posti letto in località Laisamis (il nome tradotto significa: il posto che puzza). Laisamis era un villaggio localizzato al centro dei deserti e delle zone aride e semiaride del nord del Kenya. Quello allestito da Franco in mezzo al deserto è un laboratorio, piccolino ma completo, all’altezza di fare anche le transaminasi con la stessa procedura-metodica allora utilizzata nell’ospedale di Merate. Laboratorio in grado di filtrare e farci conoscere per la prima volta un territorio fino ad allora mai indagato e quindi sconosciuto nelle sue componenti sanitarie patologiche. Per es. un dolore addominale lo si poteva finalmente affrontare con una precisa diagnostica differenziale, grazie alla possibilità di effettuare l’esame delle feci con le necessarie colorazioni per le ricerche microbiologiche accompagnati da esami ematochimici che includevano anche le amilasi che ci hanno portato a comprendre che vi erano pancreatiti dovute alla risalita di vermi intestinali nelle vie biliari. Eravamo nel 1985. Franco ipotizzò quel laboratorio presso il suo laboratorio di Barzanò e li vi testò anche le attrezzature che poi, spedite nel container per Laisamis, ha raggiunto per l’allestimento finale sul campo.

La sua permanenza a Laisamis durò circa un mese ed era la prima volta che calpestava il suolo africano; nonostante avesse un fratello missionario tra i Padri Bianchi e la sua associazione “La sola Verità è Amarsi” lavorasse nel terzo settore già da diversi anni.

Quelle serate dopo cena trascorse seduti sui gradini della chiesa; incantati dall’indescrivibile firmamento africano, guardavamo il deserto arrivare all’infinito, mentre si veniva accarezzati da un venticello ristoratore che ci portava ad assaporare i profumi della savana mescolati agli odori, provenienti dai villaggi circostanti, che spaziavano dall’affumicato a quello di stalla. Venivamo avvolti dalla colonna sonora data dal mescolarsi dei versi della iena con i rumori della notte africana che è scandita da una infinità di tipi diversi di uccelli notturni. Ttalvolta il tutto era interrotto da lunghi silenzi ove la sola voce in lontananza era il ruggito sbuffante del leone.

Questo della sera era un rituale, direi quasi atteso per tutto il giorno da ogni componente della missione: due preti, tre suore e i conviventi della mia famiglia (io, mio moglie e due figli, la femminuccia di 10 anni ed il maschietto di 8), più Franco. Ci si raccontava la giornata trascorsa, quella che ognuno, per via degli imprevisti, aveva trascorso in modo diverso per circa l’80 % di quello che si era programmato. Ci si confrontava sostenendoci e consolandoci e, grazie proprio a quell’ambiente fisico così magico e a quello psicologico che si creava, il più delle volte il discorso finiva con l’affrontare delle riflessioni sui “massimi sistemi”. Talvolta e si arrivava a percepire respirandola la presenza della Trascendenza.

Tra quei racconti, restò memorabile quello dell’avventura occorsa a me e a Franco sulla via del ritorno dopo aver accompagnato con il fuoristrada alcuni ammalati da operare presso l’ospedale di Wamba, che dista da Laisamis circa 170 Km di pista. Pista veramente dissestata e resa imprevedibile dalle piogge. In alcuni passaggi la pista presenta dei ponticelli realizzati in cemento per fare in modo da poter superare senza interruzioni alcuni dei passaggi torrenziali dell’acqua durante le stagioni delle piogge. Il problema è affrontare di notte quei ponti. Passandoli si è obbligati a ridurre al minimo la velocità del fuoristrada poiché la corrosione della pista, nel punto di collegamento al ponte, crea un gradino in cemento che se affrontato in velocità sicuramente lesiona i copertoni e con molta probabilità provoca la rottura dei semiassi inchiodando sul posto la macchina. Rallentare non era certo il problema, ma la tensione saliva alle stelle poiché ci si esponeva all’eventuale assalto da parte di predoni che, all’arrivo del fuoristrada obbligato a procedere a passo d’uomo, potevano presentarsi all’improvviso fuoriuscendo ben armati da sotto il ponte. Predoni che avevano tutto il tempo necessario per nascondersi bene, dato che nel deserto i fari delle auto sono visibilissimi da grandi distanze.

Bene, quella notte senza luna io e Franco, stavamo rientrando a Laisamis senza aver incontrato particolari difficoltà e con la coscienza serena di chi sa di aver fatto il proprio dovere. Tutto bene fino a quel momento in cui una normalissima esigenza fisiologica ci impose la necessità di una rapida sosta. In quei contesti la sicurezza personale è sempre prioritaria e richiede che anche una simile sosta venga sempre ben valutata considerando i rischi ai quali ci si espone scendendo dal fuoristrada. E’ doveroso scegliere un luogo che sia considerato il meno insicuro. Il ponte è uno tra questi luoghi; certo tra i migliori per soddisfare di notte queste improvvise richieste di madre natura. Infatti, dopo aver rallentato l’auto ed esclusa la presenza dei predoni che altrimenti darebbero una svolta ben diversa al racconto (ce la si fa adosso), ci si ferma sul ponte e si scende dal fuoristrada lasciando il motore ed i fari accesi ma puntando le torce, quelle luminose a lungo raggio, nella direzione opposta ai fari. Così protetti da tutti i lati e sempre guardinghi ci si espone dal parapetto del ponte innaffiando il deserto.

Memori del detto goliardico “chi non piscia in compagnia o è un ladro è una spia, io e Franco, ci siamo comportati secondo le norme da manuale. Ma quella notte successe l’imprevedibile. Alle prime gocce cadute dal parapetto del ponte, ci colpi un improvviso frastuono dovuto al frullare  di centinaia di ali di uccelli che si alzarono improvvisamente in volo tutti insieme. Vi fu un attimo di intensa paura, dovuta all’assolutamente inattesa sorpresa; poi seguì un brevissimo silenzio di riflessione e dopo pochi secondi, non so più chi dei due parlò per primo, forse entrambi in contemporanea, gridammo uno all’altro: “tienilo forte che ti vola via con loro”.

Franco per me è stato un Uomo (U maiuscola) normale, ma silenziosamente e quasi inosservato, un GRANDE. Ti ricordo con piacere e ti sono sempre grato per quanto mi hai regalato. Ciao Franco!